La Sposa di Chagall tra realtà e fiaba

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    Un’atmosfera cupa, del colore della notte. Una comune notte in una strada di città, con una normalissima capra che, normalmente, suona un violino.

    In primo piano una sposa, che non è vestita di bianco, ma di rosso. Una sposa che, come la terra natia del pittore, si è macchiata del sangue delle vittime del nazismo. Una terra che ha subito atrocità talmente gravi da lasciare per sempre un segno che mai più andrà via.

    Poi un marito che la abbraccia e le cinge il velo. Quello è bianco. Il marito, invece, è come se venisse da fuori. Come se fosse collocato in un’altra dimensione. Magari la stessa dimensione della città e dei musicisti dietro di loro.

    E allora è la sposa, a trovarsi in un’altra dimensione, non il marito. Effettivamente, la moglie di Chagall era scomparsa qualche anno prima della creazione di questo dipinto.

    Durante la notte, in effetti, i morti e i vivi si ricongiungono, magari nei sogni, che poi sono l’unico posto dove puoi vedere una capra che suona un violino e un pesce che vola.

    Ma quando arriva l’alba, i sogni scompaiono, e resta una solitudine forse ancor più buia della notte.

    Forse è questo che vuole dirci Chagall: che per essere felici dobbiamo superare i nostri limiti e le nostre paure, avere il coraggio di immaginare, di osare.

    O forse Chagall vuole dirci che per sopravvivere ad una realtà così buia, dobbiamo inventarci un mondo fiabesco, dove gli animali possono suonare e dove gli innamorati possono ricongiungersi, magari con un abbraccio o mentre ballano la musica che quel violino suona per loro. Il violino, uno strumento così importante nella tradizione ebraica, sia nei matrimoni che nei funerali!

    Forse Chagall aveva già capito che anche se la guerra era finita, dovevamo prepararci ad un mondo senza amore.

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